PAESI VECCHI, NOMI NUOVI

di Vito Teti

(Pubblicato su "Il Quotidiano della Calabria", 29 gennaio 2012, pag.15-21)

 

La preoccupazione del nuovo Stato unitario dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie è stata quella di controllare l’inattesa e anche organizzata risposta degli ex borbonici e di combattere il brigantaggio, che trovava vasto consenso tra la popolazione. Anche l’agenda del dibattito, dell’azione, dello scontro nel nuovo Parlamento fu dettata da quanto avveniva nelle ex province del Regno e dello Stato pontificio. Gli studi storici si sono, a ragione, concentrati su questi fenomeni, in particolare su brigantaggio e repressione del brigantaggio e non molto è stato dedicato ad altri interventi di natura economica, legislativa, giuridica, culturale che comunque modificava, in maniera significativa, tutte le aree della “nazione” che, tra contraddizioni e conflitti, si stava costruendo. Pure in una situazione di grande confusione e di aspri conflitti, molti interventi dall’alto modificavano l’organizzazione amministrativa dei paesi e la loro stessa denominazione. Molti paesi cambiano fisiononomia, nome e fanno i conti con la loro storia precedente e la loro percezione o costruzione identitaria. Cosa era avvenuto?  Mi rifaccio (attingendo dati e riflessioni) a un importante saggio “Variazioni toponomastiche in Calabria dopo l’Unità (1862-1864)” , pubblicato su «Historica. Rivista trimestrale di cultura», 3, anno XXX, 1977, pp. 127-135, a firma di Franco Mosino, uno dei maggiori studiosi, linguisti, glottologi della nostra regione.

Il 30 giugno 1862 il Ministero dell’Interno invia da Torino ai prefetti del nuovo Regno una circolare (n. 12783) in cui erano contenute indicazioni e proposte perché venisse mutata la denominazione di alcuni comuni. La proposta di tale variazione nasceva dal fatto che l’ «l’identità di nome che si riscontra in parecchi comuni è bene spesso cagione di equivoci e d’imbarazzi per i privati come per le pubbliche amministrazioni».

Per eliminare questo inconveniente, suggerisce la circolare, «basterebbe che le rappresentanze di quei Comuni deliberassero, se non di cangiare affatto la attuale denominazione, almeno di farvi qualche aggiunta che si potrebbe desumere dalla speciale situazione di ciascun Comune secondo che si trova in monte o nel piano, al mare o sovra un fiume o torrente. Queste variazioni od aggiunte sarebbero quindi a cura di questo Ministero sancite con decreto Reale…». Questa circolare che viene emanata, con grande tempestività dal nuovo regno e quando ancora fortissima erano gli scontri al Sud, e incerto l’esito di quella che viene definita una “guerra civile”, lascia un segno profondo nella toponomastica italiana e provoca, come ricostruisce Franco Mosino, una serie di numerosi cambiamenti più o meno radicali sul territorio nazionale nell’arco del triennio 1862-1864.

Anche in Calabria la disposizione del nuovo governo italiano provoca numerose variazioni nella toponomastica. Le innovazioni nelle tre province calabresi del tempo furono in tutto 85: 38 in provincia di Cosenza; 25 in provincia di Catanzaro; 22 in provincia di Reggio. I comuni motivano in vario modo la necessità di conservare l’antico nome, magari con qualche aggiunta che lo possa fare distinguere da altri. È probabile che ci siano casi in cui la denominazione sia stata sollecitata o imposta dalla Prefettura o dal Ministero (è il caso di Caraffa e S. Agata a cui viene aggiunto del Bianco) o che non si tenga conto delle proposte di cambiamento di nome che saranno arrivate da altri municipi.

 

Geografia, provenienza, appartenenza

Non è possibile esaminare, paese per paese, le motivazioni con cui ogni singolo paese cambia nome radicalmente (a farlo sono soltanto cinque) o soltanto parzialmente, con una breve aggiunta. Bisognerebbe fare ricognizioni più approfondite negli archivi comunali, in quelli prefettizi e di Stato e bisognerebbe avere un quadro regione per regione per capire quali sono stati, nelle singole realtà, le valutazioni e le percezioni identitarie dei comuni, quali gli attori e le considerazioni alla base del cambio di denominazioni. In attesa che si giunga a una ricerca estesa a tutte le ragioni d’Italia, anche per eventuali riflessioni comparative, ricordo che, nella Calabria, diversi paesi sollecitati nel cambio di denominazione,  tenendo conto delle indicazioni del Ministero, fanno riferimento alla posizione geografica: la vicinanza o la collocazione rispetto al mare, alla montagna, a un fiume. E così: San Vito diventa San Vito sullo Ionio; Santa Caterina Santa Caterina dello Ionio; Sant’Andrea Sant’Andrea Apostolo dello Ionio; Cassano Cassano allo Ionio; Castiglione Castiglione Cosentino; Santa Cristina Santa Cristina d’Aspromonte; Piane Piane Crati; Roseto Roseto Capospulico. Altri comuni individuano in un rudere o in un monumento un segno distintivo, un elemento locale identificativo per assegnare il nuovo nome al paese: Fagnano diventa Fagnano Castello; Torano diventa Torano Castello.

Altri comuni fanno riferimento all’origine, alla provenienza, al senso di appartenza dei suoi abitanti. I paesi calabro-albanesi, che sono stati particolarmente attivi nei moto risorgimentali, fanno riferimento alla “patria” mentale e ideale di provenienza nel mentre si inseriscono con convinzione nella patria italiana. San Giorgio diventa San Giorgio Albanese; Rota Rota Greca; Santa Caterina Santa Caterina Albanese; Santa Domenica Santa Domenica Talao; Sant’Agata S’Antagata d’Esaro; Santa Sofia Santa Sofia d’Epiro; Vaccarizzo Vaccarizzo Albanese.

Altri comuni fanno al nome della regione e si riconoscono in una comune “nazione” calabrese. Ajello diventa Ajello in Calabria; Bagnara Bagnara Calabra; Campo Campo di Calabria; Belmonte Belmonte Calabro, Cerchiara Cerchiara di Calabria; Corigliano Corigliano di Calabria; Salice Salice Calabro.

Altri privilegiano la precedente denominazione di “Bruzio”. Casole, nel 1864, diventa Casole Bruzio; Fiumefreddo Fiumefreddo Bruzio.

 

Il mito e il richiamo della classicità

C’è un insieme di paesi (abbastanza significativo) che non prende in considerazione la posizione o la collocazione geografica, o la possibile area di provenienza, ma l’origine storica, leggendaria o mitica, il mito dell’origine, un antico toponimo diffuso nel paese o nelle sue vicinanze. Il riferimento è quasi sempre all’antichità classica.

Terranova che nel 1864 diventa Terranova di Sibari. Bruzzano diventa, nel 1863, Bruzzano Zeffirio . La delibera consiliare del 1 ottobre 1862, di cui si occupa Mosino, motiva così la scelta: «… Essendo Bruzzano un paese antichissimo la di cui fondazione ebbe origine dalle colonie greche dei Bruzzii ed Enotri e che il suo capo, punto distinto nelle Carte Geografiche (Capo Bruzzano) che gli antichi latini appellavano Zephirium, così io credo che Bruzzano per distintivo si dovesse sopraggiungere la sopra denominazione Zeffirio…».

San Giorgio diventa San Giorgio Morgeto; Oppido Oppido Mamertina. Castalvetere diventa Caulonia. La delibera consiliare del 6 ottobre 1862 illustra il mutamento radicale della denominazione: «…Considerando che il nome di Castelvetere a questo Comune quell’epoca cotanto trista, quando l’invasione barbarica obbligò i Cittadini tutti abbandonare quella terra privilegiata, di più abitata, sia nei piani di Focà ed in linea del Ionio mare, ove le tradizioni storiche ricordano l’argine della sede della illustre Città Cauloniese, oggi memoria cara alla patria ed all’Italia: che per effetto di una tale persecuzione obbligati i popoli della difesa, occuparono questo luogo montuoso e vi costruirono un forte Castello per garanzia e difesa delle persecuzioni dette sotto la dipendenza della Casa Caraffa, Principe di Roccella. Onde cessati per la Dio mercè quei trsiti tempi ed aperta un’era novella pei popoli di civilizzazione e di amicizia, che mai più speriamo essere frastornati da barbari ingiusti persecutori; e vagheggiando sempre la lodevole idea primitiva da cui ha origine questo nostro suolo, il Consiglio esaminando con tutta ponderazione l’oggetto di che si contende, ha creduto sostituire al nome Castelvetere che prendeva la sua originaria etilologia dal vecchio Castello chiamarsi … per lo avvenire col nome di Caulonia».

Gioia diventa Gioia Tauro. La delibera consiliare del 30 ottobre 1862 chiarisce i motivi della variazione: « … nella considerazione che Gioja trovasi situato vicino al fiume Metauro il quale veniva così denominato perché divideva in due porzione l’antica e considerevole Città di Ta(u)reana di cui Gioja ne faceva parte Delibera: che questo Comune di Gioja sia in avvenire chiamato Gioja Tauro».

Roccaforte diventa Roccaforte del Greco. La delibera del delegato straordinario del Comune, in data 26 dicembre 1863, è così motivata: «… Considerando che questo Comune anticamente faceva parte della Magna Grecia, e conserva tuttavia la lingua per cui potrà aggiungere alla propria denominazione la parola del Greco».

Non si tratta di variazioni improvvisate o estemporanee: quasi sempre la disposizione nazionale diventa un’occasione per affermare elaborazioni e costruzioni identitarie verificatesi, a livello locale, in periodi precedenti. La circolare del Ministero dell’Interno del nuovo Regno probabilmente trovava un terreno fertile nelle aspettative, nei desideri, nelle percezioni di sé delle élites locali.

Istruttiva la vicenda Precacore (metatesi di Crepacore), i cui consiglieri cercano di mutare il nome che essi ritenevano di cattivo augurio. Con delibera del 20 ottobre 1864 essi avanzano la richiesta di variazione con questa motivazione: «L’origine del nostro Comune come ben conoscete discende dall’antica Città detta Samo, e siccome in quei tristi flagelli venne distrutta non solo la nobile Città ma ancora restarono vittima 8000 degli abitanti in una catastrofe, e quegli individui rimasti formarono in altro limitrofo punto la di loro sede costruendo altri fabbricati, e per allora esistè l’attuale abitato. Lasciando quel primiero nome Città di samo, adottando quello di Crepacuore e poi volgarmente riformato Precacore, e perciò propongo deliberare se credessero le SS. LL. opportuno destinare al Comune altro novello nome. Il Consiglio dietro proposta del Sindaco avendo considerato che il Comune merita altro nome, a pieni voti delibera invece di Precacore chiamarsi San Giovanni di Samo. La parola Samo per memoria dell’antica Città, San Giovanni per essere il nostro Titolare (S. Giovanni Battista) e perciò si attende dal Governo un Decreto per eseguirsi tale denominazione al Comune».

La richiesta era legata ad elaborazioni precedenti che probabilmente sedimentavano nelle percezione delle élites e degli abitanti. All’indomani del terremoto del 1783 il Sarconi, inviato dai Borboni, insieme a ingegneri e tecnici, per fare un inventario dei danni provocati dal terribile sisma, proprio parlando di Precacore nota:

«…vi ha de’ piccioli luoghi, de’ quali è piaciuto agli scrittori della storia Calabra di far parola con molta pompa. In un luoghetto, che si è da essi chiamato Crepacore, e poi indi passò ad appellarsi Precacori, hanno creduto di rinvenire Samo, e in conseguenza l’hanno innalzato all’onore di essere stata la Patria di Pittagora. A dir vero gli uomini, che nascono per onorare l’umanità, possono venire alla luce in ogni dove; ma non è questo il primo esempio dell’impetuoso desio, con cui cotesti storici han cercato di rappresentare la Calabria, come la culla o l’albergo di molti illustri soggetti, e come la stabile sede di tutte le più speciose bellezze della natura» (Sarconi, Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone l’anno 1783 posta in luce dalle Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli, Campo, Napoli, 1874; rist. an., intr. di E. Zinzi, Mario Giuditta Editore, Catanzaro, 1987).

Era una critica illuminata alle retoriche localistiche che nasceva all’interno del Regno di Napoli e che forse, magari senza conoscerla, dovette influenzare il Ministero. Fatto sta che il decreto di approvazione della delibera comunale non arriva e Precacore prenderà il nome di Samo soltanto nel 1911 all’idomani del devatante terremoto del 1905, che distrugge interamente l’abitato e viene ricostruito in una località vicina. L’antico nome - deve avere pensato qualcuno - portava davvero sfortuna al paese. Dal 1928 al 1946, durante la dittatura fascista, insieme a Casignana, Sant’Agata del Bianco e Caraffa del Bianco venne denominata, come ricostruisce Enzo Stranieri, “Samo di Calabria” per poi riacquistare, al pari degli altri due paesi, l’antico nome e l’autonomia all’inizio del periodo repubblicano.

 

Abbandonare la maledizione del nome

Abbandonare un nome che «porta male», che provoca sventura, disastri, terremoti, lutti è l’imperativo di altri comuni che riscoprono denominazioni classiche.

Pietramala, Petramala o Petra Mala, di probabile origine medievale, con deliberazione comunale del 3 novembre 1862 (e autorizzazione del Re Vittorio Emanulea III) prende la denominazione di Cleto, in omaggio a una tradizione erudita (Barrio, Giovanni Fiore da Cropani, Pacichelli, Martire) che attribuiva la fondazione di quel centro a Cleta, nutrice di Pentasilea, regina delle Amazzoni. Una leggenda narrava di una maledizione fatta agli abitanti del paese da parte di un monaco che si era fatto male cadendo su una pietra del castello e, da allora, sarebbe stato tutto un succedersi di sventure.

La denominazione Pietramala, come Crepacuore,  assorbiva un carico di negatività e di «maledizione» con un nome che si abbandona alla prima occasione.

La maledizione, in questo caso in forma di scomunica di un Papa, Callisto II, incombeva anche sul comune di S. Nicola. Per il nome di questo paese e per quello della vicina Francavilla è possibile ricostruire, in maniera necessariamente veloce, un percorso identitario in epoca moderna e che poi si sarebbe concretizzato nell’assunzione del nome agognato all’indomani dell’unità d’Italia.

 

Il mito delle origini: da Santo Nicola a S. Nicola di Crissa – Da Francavilla a Francavilla Angitola

Di possibile fondazione medievale, come segnala il nome, il casale di S. Nicola nel Cinque-Seicento dipende dalla baronia di Vallelonga e difatti nelle fonti ufficiali è denominato Santo Nicola di Vallelonga o casale di Vallelonga. In prossimità di questo paese, vicino alla foce Angitola e al mare, si ergono ancora imponenti i ruderi di Rocca Angitola, che sarebbe stata abbandonata nella seconda metà del Settecento. Rocca Angitola, di possibile origine bizantina, quasi certamente è l’antica  Rocca Niceforo: nel periodo di un suo progressivo declino, in epoca moderna,  è presentata da una tradizione erudita e letteraria (Barrio, Marafioti, Giovanni Fiore da Cropani, Tranquillo) come un luogo ricco, fertile, prospero, e come la «discendente diretta» di un’antica e favolosa città: Crissa.

L’identificazione di Rocca con una mitica Crissa si basa su una fonte classica: un verso dell’Alessandra di Licofrone, scrittore greco del IV secolo a. C., che in questa opera si sofferma sugli eroi profughi della guerra di Troia. Isacio, scoliasta bizantino, in una nota al verso 1070 precisa che Crissa era stata fondata dai Focesi, con a capo Crisso, fratello di Panopeo, presso Hipponion. La tradizione della città doppia, abbandonata e poi ricostruita, è presente nell’antichità e ben rappresentata nelle lettarature classiche. La prospera e ricca città fondata dagli esuli focesi sarebbe stata distrutta dai saraceni nel X secolo e i suoi abitanti si sarebbero distribuiti in territori vicini, fondando nuovi villaggi, tra cui S. Nicola e Francavilla. In un documento del 1474, si legge, infatti. che Rocca Angitola avrebbe avuto infatti sotto la sua giurisdizione diciotto casali: Braccio, Staradi, Pimene, Santo Sidro, Aporono, Chirofono, Macheradi, Casalenovo, Santo Nicola, Filogaso, Santo Stefano, Scanathorio, Pronia, Maroni, Capistrano, Carthopoli, Santo Foca e Clopani.

Dall’ inizio del Seicento la denominazione Crissa comincia a vagare, con insistenza e con un suo fascino, negli scritti degli studiosi locali e si diffonde anche a livello di tradizione orale.

 Nel 1635 a Santo Nicola a Junca, Santo Nicola di Vallelonga, l’abate Gian Giacomo Martini pubblica infatti Consiliorum sive responsorum iuris…, il primo libro a stampa delle attuali province di Vibo e di Catanzaro, dove  il riferimento alla «dulcis patria mea» è dettato da motivazioni di ordine pratico, politico, come la necessità di renderla entità amministrativa separata dalla baronia di Vallelonga, cui doveva versare alcuni tributi. Le perorazioni della causa del proprio «picciol luogo», anche in base a consuetudini di diritto naturale, con probabili interessi concreti dei ceti sociali e della famiglia di appartenenza, viene legittimato dal prestigio e dall’antichità del suo casale. Gian Giacomo Martini fa più volte riferimento a un passato glorioso, grandioso, lontano, dai contorni mitici. Egli afferma di scrivere in difesa e in favore della propria patria perché non vengano smarrite le sue ragioni come avvenne per Crissa di cui restano soltanto superbe vestigia. Martini ricorda l’esistenza di una magnifica città di nome Crissa, e diversamente da altri autori  afferma che l’antica città non era situata nel luogo dove sorgeva Rocca Angitola, bensì in una località denominata «Le Motte». L’abate parla con grande nostalgia di Crissa, situata in zone fertili e salubri, come «patria mea», stabilendo un rapporto di continuità tra Crissa e il proprio paese.

Nel 1725 (novant’anni dopo il Consiliorum del Martini), Ilario Tranquillo (1668-1743) - professore di teologia e primo canonico della chiesa collegiata di Pizzo - pubblica a Napoli la Istoria apologetica dell’antica Napizia, dove, tra l’altro, nella dedica a Tommaso Mannacio (1667-1639), scritta in forma epistolare e datata 31 gennaio 1725, dove riprende la tradizione erudita che fa discendere Rocca Angitola da Crissa, e sostine che Francavilla era uno dei tanti casali sorti a seguito delle incursioni saracenw nel X secolo.

Stabilita, per cosi dire, la derivazione di Rocca Angitola  dall’antica Crissa, Tranquillo si impegna mostrare che da Rocca sarebbe nata Francavilla grazie a un rappresentante della famiglia Mannacio. Un alfiere Monacio è l’eroe che combatte strenuamente per difendere Crissa dai saraceni. Le prime notizie relative ai Mannacio risalgono, in realtà, come mostra Foca Accetta, alla fine del XVI secolo, quando sono impegnati in opere di devozione religiosa, di carità cristiana, e in comportamenti che hanno come obiettivo un’ascesa di tipo sociale ed economica e la conservazione del patrimonio fondiario (olivi, gelsi, fichi, altri alberi da frutta) della famiglia attraverso mirate alleanze matrimoniali e adozione di strumenti giuridici di tutela del patrimonio dai rischi di parcellizzazione: il fedecommesso e il celibato sacro, maschile e femminile.

Un altro aspetto della famiglia Mannacio (Tranquillo ricorda gli scritti letterari di Pietro Francesco Mannacio e di Giuseppe Mannacio) – come ricorda Foca Accetta in molti suoi scritti -  è il valore che loro attribuiscono alla cultura, che diventa anche un elemento di costruzione dell’identità di famiglia. Tommaso Mannacio (1667-1739) sposa Giulia Bono (1692 - ?), figlia di Antonio e di Lucrezia Martini, a sua volta figlia di Antonino, nipote di Giovanni Bernardino, pronipote di Gian Giacomo Martini. Nel 1811 Domenico Mannacio (1786-1854) nipote di Tommaso junior (1743 - ?), sposava Maria Teresa Galloro-De Rocco di S. Nicola, dove si trasferiva e dava origine, con il figlio Vito Antonio (1812-1893), al ramo dei Mannacio di S. Nicola. La famiglia di Gian Giacomo Martini che aveva osservato le vestigia di Crissa in località Le Motte incontrava la famiglia Mannacio cui il Tranquillo legava le vicende di Crissa, Rocca e Francavilla. Il cambiamento del nome del paese da S. Nicola di Vallelonga in S. Nicola di Crissa (e poi da Crissa) viene proposto e realizzato nel periodo in cui il comune è amministrato da appartenenti ai Mannacio, che, anche a S. Nicola, si andavano affermando come famiglia proprietaria e professionista. In questo contesto di scambi matrimoniali e di nascita di una borghesia terriera  Santo Nicola della Junca e poi Santo Nicola di Vallelonga e Francavilla mutano nome. S. Nicola di Calabria Ultra seconda, con decreto (n. 1426) del Ministero dell’Interno, firmato da Vittorio Emanuele, in data 28 giugno 1863, cambiava il nome in S. Nicola di Crissa (non da Crissa, come poi sarebbe divenuto anche nei documenti ufficiali). Il Ministero autorizzava quanto stabilito, con delibera consiliare, dal comune in data 22 ottobre 1862. Al nome in onore dello «speciale Protettore del luogo» si aggiungeva quello di una mitica città magnogreca.

Francavilla diviene Francavilla Angitola, come ricorda Foca Accetta, con una delibera dal consiglio comunale il 2 novembre 1862,  ratificata con real decreto del 26 marzo 1863. Al nome Francavilla si aggiunge quello dell’antico e importante fiume-microcosmo Angitola.

 

Retoriche e ricerche identitarie

Gli studiosi hanno segnalato, di recente, che la città magnogreca di riferimento (sia per S. Nicola sia per Francavilla) non è altro che una inventio, il frutto di un’errata lettura delle fonti classiche da parte degli appartenenti a una tradizione erudita a partire da Barrio. Corrado Alvaro (Un treno nel Sud, a cura di A. Frateili, Bompiani, Milano, 1958) ha un atteggiamento critico nei confronti della retorica dell’antichità classica, spesso una sorta di angusta e localistica fuga nel passato da parte dell’intellettualità periferica:

«Prospera qui, non si sa come, in una contrada semplice, vera, scabra, una inaspettata retorica , tarda eco della retorica nazionale. Quasi tutto quello che si legge qui della Calabria, a parte, la letteratura dialettale, è ri­volto in genere a magnificare una Calabria che non esiste più, e cioè la colo­nie greche, e Sibari, e Locri. La tendenza è al classico. Il povero bracciante fugge nell’emigrazione, e l’intellettuale fugge nel passato. La retorica sì, quella è nazionale». 

Possiamo adottare, però anche un’altra prospettiva. Scrive Zanotti Bianco:

 «Il ricordo della grande civiltà fiorita - quando Roma non era ancora che un aggregato di villaggi di pastori - sulle feraci sponde dell’attuale Calabria, e con tale intensità che gli stessi greci chiamarono quelle loro colonie la Grande Grecia (Megále Ellás) ha nutrito per secoli la fantasia delle genti calabresi sempre in attesa della riapparizione di testimonianze del loro luminoso passato.

Percorrendo la severa e bella regione, non è raro trovare nei villaggi chi vi mostri nelle vaghe lontananze, presso le distruttrici fiumare o nelle località più impensate il luogo ove sarebbe sepolta una delle antiche città dal nome glorioso o qualche favoloso tesoro. E il sentir parlare di queste antiche meraviglie, colorate dai sogni, da umile gente tra il fumido odore dei loro miseri abituri e le triste stigmate di una povertà secolare, ha una poesia che non è possibile dimenticare. È questo geloso amore di cose lontane, è questa passione non potuta nutrire di seri studi perché isolata da ogni centro di alta coltura, che hanno tuttavia orientato una parte delle storiografia calabrese dell’ottocento verso l’antica storia della Magna Grecia» (Zanotti Bianco, La Magna Grecia,  in «Il Ponte», anno VI, n. 9-10, settembre-ottobre 1950, pp. 1014-1022).

La tradizione erudita risalente a Barrio si poneva il problema di nobilitare luoghi periferici e tristi e la geografia spesso fantastica  ubbidiva anche al bisogno di fuggire da un presente intollerabile, inaccettabile. Il  planctus di Barrio per le tristi condizioni in cui versava la regione, invasa dai turcheschi e oppressa dall’esoso regime fiscale e dai baroni prepotenti, aveva un valore di denuncia. La sua nostalgia una carica oppositiva e di critica dell’esistente. Il ritorno delle élites locali a un passato glorioso, dai contorni mitici e fantastici, appare, anche, una sorta di presa di distanza presente, talora una sorta consolazione per un dolore lancinante.

D’altra parte l’inventio non era del tutto gratuita. Recenti campagne di scavi archeologici condotte in prossimità di Cleto, di Rocca, di Precacore hanno portato alla luce reperti che risalgono all’epoca protostorica e al periodo grecoromano. Se è vero che la toponomastica nasce su una geografia fantastica e leggendaria, è vero che là dove si pensavano città mitiche sono stati trovati ruderi, rovine, reperte che pretendono un nome e che hanno una storia.

L’errore, l’inventio, le costruzioni narrative degli studiosi locali finiscono con il rilevare (col fondare?) la “verità” di un innegabile storicità e centralità di questi luoghi. È affascinate constatare come i nomi del luogo che raccontava il nostos degli esuli greci oggi sia diventato, dopo lunghi e sotterranei, controversi percorsi identitari, il nome che racconta la nostalgia, la melanconia e le rifondazioni, degli emigrati e degli esuli di questa parte della Calabria.

Crissa, Cleto, Samo mitizzate e inventate hanno avuto una loro esistenza nella mentalità, nelle ricerche di definizione sociale e culturale delle diverse classi sociali, nei nomi, nelle costruzioni di questi luoghi. Il sogno dell’antica città, in questo senso, non è ancora scomparso. In molti luoghi, in Italia e all’estero, si parla di una città scomparsa, di una sorta di Atlantide di questa parte di mondo. In maniera diversa il nostos appare, nella lunga durata, decisivo per l’affermazione della presenza e per la costruzione dell’identità in un’ area del Mediterraneo. La città inesistente, inventata, oggetto di rimpianto e di nostalgia, rivela un bisogno di altrove, l’utopia, il rifiuto delle miserie del presente, l’affermazione di soggettività delle popolazioni. Guardando all’indietro e mitizzando talora il passato le popolazioni hanno fondato altri mondi. In questo senso, niente è più vero e reale del mito, pochi luoghi sono più veri, più antichi e più reali delle città che hanno dato i nomi ai paesi.

La disposizione del nuovo Stato diventava un’occasione per affermare delle elaborazioni e costruzioni identitarie locali che avevano interessato studiosi del luogo influenzati dalle mappe e dalla geografie della tradizione erudita. I gruppi locali si misuravano, a partire dalla loro percezione, con un’identità da inserire in un nuovo contenitore. È la presa di distanza da un passato negativo, da un mondo di sventura, e anche dal precedente regime. Interessante la motivazione con cui il consiglio comunale di Rocca Ferdinandea il 10 maggio 1863 votò di ripristinare l’antico nome Rocca di Neto: «Considerando che non si addice a liberi cittadini di portare più lungamente il marchio aborrito del servaggio e di trasmetterlo a posteri, perché abbiano a rammaricarsi delle nostre sventure o ad arrossire delle nostre onte io stimo, adunque, necessario che questo Municipio, ibattezzato a novella vita politica deponga il nome che da trent’anni gli regalarono i satelliti piaggiatori della borbonica tirannide […]Perciò, questo Municipio riprenda l’antico nome di Rocca di Neto, e così faccia scolpirsi ai nuovi suggelli di questo Archivio, sotto il glorioso stemma di Savoia».

Si tratta di un fenomeno che vede protagonsite le élites, cui però non smbrano estranei i ceti popolari. A muovere gli amministratori locali non siano tanto le indicazioni fornite dalla circolare, che dava indicazioni di tipo goegrafico, ma riferimenti a storie, miti, provenienze locali. È interessante vedere, nei diversi casi, quale è il mito di rifondazione del nome, crecando di inserire la variazione dei nomi in vicende di lunga durata. Un lavorio impegantivo che finalmente affidava la ricerca di senso ai locali. I piccoli luoghi si inserivano in un contesto più ampio e dovevano costruire una nuova identità proprio a partire dalla riflessione sul nome. L’iniziativa nazionale diventava così occasione per marcare una distanza rispetto al passato recente e per affermare un vicinanza a un passato lontano, magari leggendario, mitico.

La disposizione del nuovo Stato veniva ad incidere in maniera significativa sul senso di sé, sull’idea di appartenenza, sulla percezione della loro storia e della loro collocazione geigrafica che gli abitanti – o per meglio dire gli amministratori e le élites economiche e culturali – avevano della loro «piccola patria» o del loro «picciol luogo», che per la prima volta doveva inseririrsi in un contesto più generale, in una patria, di cui ancora si sapeva ben poco e che veniva costruita lentamente, tra tante difficoltà. Le iniziative del nuovo Stato diventano stimolo per manifestare nuove forme di percezione e di autorappresentazione degli abitanti, non più in un contesto regionale, ma dell’intero territorio nazionale. Per molti paesi scoprire che portavano lo stesso nome di altri paesi del Nord costituisce forse un modo di sentirsi parte di una vicenda più generale.

Riferimento all’origine, alla provenienza, ai beni archetettonici, alle tradizioni religiosi, alle lingue, alla topografia e alla geografia, alla toponomastica: i paesi calabresi partecipano alla nascita dell’Italia ripensando la loro dimensione locale, ma richiamandosi alla Grecia, all’Epiro, all’Albania, a un universo mediterraneo. E forse questo legame con l’antichità e con i paesi del Mediterraneo è una aspetto che andrebbe approfondito per vedere quanto il Risorgimento meridionale non guardasse non solo all’europa cotinentale, ma anche al Mediterraneo: alla Grecia e anche a Malta, alla stessa Turchia, che era meta di patrioti meridionali e basti per tutti il nome di Benedetto Musolino.

Il mutamento di denominazione dei paesi va però compreso in un fenomeno di lunga durata che va dall’antichità ai nostri giorni. La Calabria è terra con un territorio costantemente “reimpaginato” fin dall’antichità. Siti e nomi scompaiono e ricompaiono. L’abbandono di un luogo spesso comporta la perdita del nome, altre volte il suo trasferimento, la sua dilatazione, o estensioneDel resto lo stesso nome Calabria è frutto di un “trasloco” di denominazione in epoca greco-bizantina. Anche gli abbandoni dei luoghi hanno una motivazione concreta, una causa o più cause: catastrofi, ricerca di nuovi spazi produttivi, guerre, invasioni, anche se la spiegazione è  mitica. Una vicenda che dura in epoca moderna e bisognerebbe ricordare provvedimenti legislativi del periodo francese, soprattutto quelli del 1811, che trasformano in comuni molti villaggi ed abitati dipendenti da più vasti agglomerati e circondari. 

Con l’unificazione nazionale la necessità di cambiare nome e la sceltà del nuovo nome rispomdono insieme a un’esigenza nazionale e a un’esigenza locale. I paesi si inserivano in un contesto geografico, storioco, culturale, mentale inedito.

La tendenza a mutare i nomi dei paesi con riferimento al periodo classico permane nei decenni successivi. Nel 1878 Soriano, il famoso centro del culto domenicano, dell’artigianato, delle “magnifiche rovine”, diventava Soriano Calabro per non essere confuso con altre città dello stesso nome esistenti in Italia.

Con decreto del 1878 i comuni di Pèdavoli e di Paracorìo vengono unificati e prendono il nome di Delianova, oggi Delianuova per Delia antica città magnogreca presso Locri. Nel 1927 Tresilico è unita a Oppido Mamertina e scompare come nome comunale

Nel 1928 Iatrinoli e Radicena e Terranova Sappominulio uniti prendono nome Taurianova per l'antica Tauriana. Terranova ritorna comune autonomo nel secondo dopoguerra. Nel 1934 il comune di Gerace Marina assunse l'attuale denominazione di Locri. E Monteleone poi diventata Monteleone di Calabria prende, con decreto governativo dell’8 dicembre  1927, il nome di Vibo Valentia con riferimento ai nomi della citta antiche. Siamo nel periodo della scoperta fascista della romanità, in un contesto in cui la propaganda di regime si rifugiava anche in una tradizione classica e antica, in maniera strumentale, anche se non senza motivazioni plausibili.

 

Catastrofi, paesi doppi e nuovi nomi

I terremoti e le alluvioni, con conseguente abbandono, saranno causa di nuove denominazioni. Un Comitato di soccorso milanese è attivo nel Vibonese; un Comitato Veneto-Trentino nel 1907 inaugura ad Aiello un nuovo quartiere nella zona di Patricello. Martirano, duramente colpito dal sisma del 1905 prenderà il nome di Martirano Lombardo perché ricostruito grazie al sostegno di un Comitato lombardo. Il Comitato Piemontese costruì Favelloni, dove ancora oggi  esiste una via Piemonte. Un discorso a parte va fatto per i paesi che vedono sorgere un loro doppio lungo la costa, che prende lo stesso nome seguito o preceduto dalla parola “Marina”.

Marina è il termine con il quale sono stati indicati i doppi dei paesi dell’interno sorti lungo le pianure e le coste a partire dalla fine del Settecento e poi dopo l’unità d’Italia e, soprattutto, negli anni cinquanta del Novecento (a seguito delle alluvioni dei primi anni di quel decennio e, contemporaneamente, al grande esodo). In molti casi nascono paesi autonomi, in altri casi si mantiene l’unità amministrativa.

Ionio e Tirreno sono ricchi di questi paesi doppi. S. Andrea, S. Sostene, S. Caterina, Badolato, Siderno, Amantea, Nocera, Falerna e così via.  In un periodo di crisi dei paesi presepi, di spopolamento che riguarda tutti i paesi dell’interno, di nascita di non luoghi, questa vicenda locale appare significativa per ripensare il senso di appartenenza a una patria che non sarà mai compiuta se perderà le sue mille città e le sue mille e mille piccole patrie che si sono quasi sempre riprodotte all’estero. Invece di cancellare per decreto e per fattori meramente economici piccioli luoghi, con una ricchezza e un patrimonio culturale enorme, bisognerebbe forse incoraggaire nuove forme di vita e invitarli a una nuova ragione di essere nel periodo della globalizzazione. Lo spopolamento e l’abbandono delle aree interne unifica Nord e Sud più di quanto non si immagini. L’esodo, la fuga, la fine delle eceonomie e delle culture locali sono tratti che hanno accumunato l’Italia e che non possono essere spiegate con la facile distinzione Nord-Sud. Le piccole patrie oggi più che mai, per dirla con Barberis, hanno bisogno di patria. Spero che nel paese delle utopie e delle fantasie, dei grandi sogni e delle grandi delusioni, non appaia retorico immaginare un nuovo Risorgimento.

 

LA MEMORIA E L'IDENTITA'

di Vito Teti